Una traccia fiamminga per il maestro della Madonna Cagnola (Zanetto Bugatto)
Una nuova attribuzione al Maestro della Madonna Cagnola, identificato dagli studi più recenti con l’artista lombardo Zanetto Bugatto.
Alcuni anni fa, consultando la cartella degli anonimi provenzali del Quattrocento presso la Fondazione Roberto Longhi di Firenze, ho avuto occasione di imbattermi in un’immagine di una tavola dipinta di ubicazione sconosciuta, raffigurante il Cristo morto sorretto da un angelo, che una scritta riportata nella scheda indicava essere appartenuta un tempo alla collezione Bartolini di Firenze. È probabile che, nell’interpretare la componente fortemente fiammingheggiante del dipinto, Longhi fosse stato indotto a collegarlo all’area provenzale, anche per via della particolare decorazione incisa a ramages del fondo oro, caratterizzata qui da sottili motivi a girali vegetali e floreali. Una tipologia decorativa certo non rara in ambito lombardo e ligure, nonché franco-provenzale, ma che in questo caso risulta del tutto coincidente a quella che appare nella serie di tavole riferite a suo tempo dallo stesso Longhi a quel “nobilissimo anonimo lombardo” che va noto come Maestro della Madonna Cagnola, nel quale anche recentemente si è voluto riconoscere l’inafferrabile Zanetto Bugatto, che sappiamo, tra il 1461 e il 1463, svolse un apprendistato a Bruxelles presso la bottega di Rogier van der Weyden. Un’identificazione messa in discussione da chi, rifiutando la pertinenza lombarda dei vari dipinti, ha preferito invece ravvisavi possibili tangenze con l’area appunto ligure e provenzale.
Nel caso della nostra tavola l’affinità con le opere riferite a quest’ultimo maestro non si limita certo alla sola trattazione ornamentale del fondo, ma interessa più in generale la parte figurativa, connotata da un’analoga e precisa trasposizione di motivi fiamminghi, interpretati sempre con una lucidità ed una acutezza che, in certi sottili passaggi di luce, tradisce tuttavia una origine lombarda o quanto meno padana. Per quanto in parte alterato dalle evidenti ridipinture, il volto del Cristo presenta infatti forti analogie con quello della Madonna oggi conservata a Villa Cagnola a Gazzada, di cui ripropone l’estrema regolarità dei lineamenti, a partire dal naso e dalla bocca, nonché dalla conformazione delle sopracciglia che sovrastano le ampie palpebre socchiuse caratterizzate dal medesimo taglio. Anche le mani dalle dita affusolate appaiono del tutto identiche a quelle della Madonna Cagnola mentre le sottili dosature della luce che caratterizzano l’accurata definizione anatomica del corpo del Cristo richiamano analoghe soluzioni presenti nel San Giovanni Battista ora in collezione privata, appartenuto in origine al medesimo complesso. Lo stesso si può dire per l’acutezza tutta grafica con cui sono resi i complicati panneggi, palesemente rogeriani, della veste dell’Angelo nonché del sudario, come appare anche nelle varie tavole della serie riferite all’anonimo artista, non ultima quella con la Sant’Orsola resa nota da Andrea De Marchi, dove singolarmente ritroviamo molto simile il motivo della mano con il lungo mignolo che sorregge il manto.
Quest’ultimo elemento si rifà del resto in modo esplicito a un prototipo fiammingo, come attestano alcuni dipinti pervenutici da porre sicuramente in relazione alla nostra tavola, che si può pertanto immaginare rechi memoria di una versione fiamminga perduta forse eseguita dallo stesso Rogier van der Weyden. La composizione del dipinto che qui si presenta ci è nota infatti attraverso alcune tavole fiamminghe come dimostrano sia la versione dei Musée Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles, riferita ad un artista dei paesi bassi meridionali attivo tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI, sia quella meno nota del monastero de Pedralbes a Barcellona, parte quest’ultima di un dittico attribuito ad un seguace di Rogier raffigurante nell’altro pannello la Vergine con il Bambino. Tranne che per la variante della mano sinistra del Cristo, posta in entrambe le due versioni in basso a raccogliere il sangue della ferita del costato, il modello compositivo si presenta nella sostanza del tutto coincidente, tanto da fare pensare che a monte di queste versioni possa essere esistito un prototipo comune più alto, anche se di questo non è rimasta alcuna traccia.
Da questo punto di vista è comunque interessante rilevare l’affinità che si può cogliere con
la diversa variante iconografica di Maria che sorregge il Cristo sofferente, di cui ci sono perve3nute alcune antiche versioni dipinte da Memling e dalla sua bottega, ad iniziare da quella sicuramente autografa della National Gallery of Victoria di Melbourne, che già Friedländer aveva ipoteticamente proposto di mettere in relazione con un perduto trittico riferito a Rogier van der Weyden, ricordato in un inventario della collezione di Margherita d’Austria. Per quanto non si conoscano opere di tale soggetto attribuibili direttamente al van der Weyden, è comunque possibile immaginare che anche di questa composizione fosse esistita in origine una sua versione, caratterizzata forse da leggere varianti.
È quanto lascerebbe intendere una traduzione grafica dovuta a un incisore fiammingo, il cosiddetto Monogrammista F, nella quale ritornano alcuni dettagli presenti nelle diverse versioni di Memling, anche se a livello compositivo il soggetto dell’incisione presenta maggiori analogie con la tavola qui pubblicata, segno che del Cristo morto sorretto dalla Vergine, posta sulla destra della scena, dovette esistere una diversa versione, conosciuta del resto anche attraverso alcune tardive repliche. La coincidenza iconografica con la nostra tavola risulta davvero stringente, solo che si osservi il corpo ed il viso del Cristo, nonché il gesto della Vergine che sorregge con la mano sinistra il sudario, caratterizzato dagli stessi ampi panneggi che ricoprono, come nella nostra tavola, parte del coperchio del sepolcro posto anche in questo caso nella parte sinistra della raffigurazione. Ovviamente in mancanza di altri indizi risulta difficile stabilire se da questo particolare modello, riproposto dall’incisione, sia potuto derivare la diversa variante
con l’Engelpietà, allora ben diffusa in ambito fiammingo come confermano le varie repliche di
cui si è fatto cenno sopra, a cui può essere aggiunta anche quella più modesta già conservata a
Madrid nella collezione di don Josè Lazaro.
Quanto detto non può che confermare l’importanza della nostra tavola, che di fatto viene a restituirci un’ulteriore prova delle preferenze filofiamminghe dell’artista, che si può presumere in taluni casi siano maturate direttamente a contatto con alcuni dei più illustri esempi della pittura “ponentina”, come attesta il caso più volte richiamato del Columbaaltar della Alte Pinakothek di Monaco, dipinto dal van der Weyden intorno al 1450-1455, o di altre opere uscite dalla sua bottega. Per quanto riguarda la tavola qui presentata, accanto a una possibile derivazione da un modello rogieriano, mi pare si possano cogliere anche elementi che risalgono più direttamente alla produzione di Dirk Bouts, a cui chiaramente rinvia la forma un po’ allungata ed appuntita del volto dell’angelo, assimilabile, nella definizione minuta dei lineamenti e della piccola bocca carnosa, a quello di certe Madonne dipinte dal pittore olandese, come conferma ad esempio il confronto che si può istituire con la tavola della National Gallery di Londra.
Certo non è dato ravvisare nella nostra tavola quella “lucidità geometrizzante” che è stata colta negli altri pannelli del maestro, da cui il Cristo in morto sorretto da un angeli si differenzia anche per via della definizione più sommaria dei nimbi punzonati. Il che potrebbe forse mettere in discussione la sua appartenenza al medesimo complesso di cui dovette fare parte la Madonna Cagnola, anche se tale ipotesi non deve comunque essere scartata, come suggerisce in questo stesso numero della rivista Andrea De Marchi, orientato a considerare questo Engelpietà elemento apicle del menzionato polittico. In alternativa si potrebbe pensare, come a suo tempo suggeriva Federico Cavalieri [link qui; ndr], che il complesso fosse sormontato da una tavola con la Crocifissione o con l’Annunciazione. Soltanto una osservazione diretta della tavola potrebbe comunque fornirci in proposito altri elementi consentendo al tempo stesso di verificare se il dipinto in questione possa avere subito nel tempo, sia nelle punzonature dei nimbi che in altre parti, particolari manomissioni o rifacimenti. Va detto tuttavia che il motivo decorativo dell’aureola del Cristo, caratterizzato da rosette a cinque bolli appare non molto dissimile da quello utilizzato da un artista lombardo, che taluni hanno voluto identificare con Ambrogio Bevilacqua, per la Madonna adorante il Bambino, della Pinacoteca Malaspina di Pavia, che Cavalieri ha proposto, sia pure indirettamente, di mettere in relazione con la produzione dello stesso Maestro della Madonna Cagnola.
È anche questa una prova dell’origine lombarda del maestro, che in tempi più recenti ha trovato conferma grazie anche al ritrovamento di un frammentario affresco con la Maddalena abbracciata alla croce parte di un più vasto Calvario, sicuramente a lui attribuibile, sull’altare della sacrestia dell’abbazia milanese di Chiaravalle, reso noto dallo stesso Cavalieri su segnalazione di Stefania Buganza. Non meno probante in questo senso si è dimostrata, anche la tavola conservata in Santa Maria di Dicinisio a Sormano in Valsassina, che presenta, come si è accorto Andrea De Marchi, precise derivazioni iconografiche da alcuni dei pannelli provenienti dallo stesso complesso dovuto al Maestro della Madonna Cagnola, che si può quindi supporre si sia potuto trovare fin dall’origine in Lombardia. Come ha notato anche Cavalieri, il raffronto si fa assai stringente per le figure del Battista, per il Sant’Ambrogio e per il San Gerolamo, anche
se non si può parimenti escludere che altre parti della tavola di Sormano derivino direttamente da altri pannelli perduti della medesima serie. Penso soprattutto al San Bernardo che nella particolare postura della mano che impugna il pastorale ricorda molto da vicino il Sant’Ambrogio di collezione privata, nonché il San Gregorio già nel Museum of Art di Toledo e al San Nicola di collezione privata, parte questi due ultimi probabilmente di un diverso complesso, ugualmente collegabile al Maestro della Madonna Cagnola e alla sua bottega. Così è anche per altri particolari della tavola di Santa Maria in Dicinisio, come dimostra ad esempio la mano della santa che sostiene il libro sull’estrema destra quasi ricalcata si direbbe su quella fortemente rogeriana del San Lorenzo oggi in collezione privata. A ben guardare anche la figura inginocchiata del San Giuseppe posto anch’essa nella parte destra del dipinto di Sormano presenta nel particolare modo di rendere le pieghe della veste e del manto velati richiami alla tradizione fiamminga.
In questo caso però il riscontro più diretto sembra potersi trovare più che nei modelli dell’anonimo artista nel frammentario affresco conservato nella chiesa di Santa Maria degli Angeli di Vigevano, che attendibilmente si è proposto di collegare al nome di Zanetto Bugatto. Il lacerto raffigurante l’Adorazione del Bambino è quanto ci resta infatti di un più vasto ciclo pittorico andato perduto realizzato per volontà di Galeazzo Maria Sforza nel 1472 da Bonifacio Bembo, Leonardo Ponzoni e dallo stesso Zanetto, al quale i documenti sembrerebbero attribuire un ruolo di primo piano. Come ha giustamente osservato la Binaghi Olivari, l’affresco non può certamente essere riferito al ben diverso Bonifacio Bembo né tanto meno, in
mancanza di più probanti indizi, a Leonardo Ponzoni; mentre, per quanto riguarda il Bugatto, il nome potrebbe benissimo essere speso anche in considerazione di certe indubbie connotazioni fiammingheggianti che sono già state ravvisate a proposito delle due figure superstiti. Per quanto in parte alterata dalle ridipinture, la figura del San Giuseppe presenta ancora nelle parti meglio conservate una evidente qualità esecutiva, ravvisabile ad esempio nella definizione del volto, di gusto vagamente foppesco ma al tempo stesso anche nordico nella precisa definizione dei tratti fisionomici e psicologici del personaggio. Così come indiscutibilmente fiammingo risulta essere il modello da cui l’artista sembra avere tratto le lunghe ed affusolate mani del santo, facilmente assimilabili, perfino nel particolare del pollice piegato, a quelle di taluni donatori che appaiono nelle tavole del van der Weyden, dai cui modelli
sembra avere tratto anche il motivo delle strette maniche svasate in fondo a coprire parte delle mani, che singolarmente ritorna identico anche nel San Giuseppe della tavola di Sormano, a riprova dell’esistenza di indubbi rapporti tra le due opera. Del resto, come ha fatto notare Andrea De Marchi questo tipo di mani “delicate e sforbiciate”, di chiara ascendenza rogeriana, costituisce un po’ una sigla ricorrente nelle opere del Maestro della Madonna Cagnola, come attestano sia la Sant’Orsola, pubblicata dallo studioso sia il San Gregorio, reso ora leggibile dopo il recente restauro.
Analoghe considerazioni possono essere fatte, sempre a proposito dell’affresco di Vigevano, anche in relazione alla invero più modesta figura della Vergine adorante, profondamente alterata dai rifacimenti in corrispondenza delle zone del viso e delle mani, ma ancora chiaramente leggibile nella sua precisa traduzione da un modello rogieriano, che la Binaghi Olivari ha correttamente riconosciuto nel trittico di Pierre Bladelin (Berlino, Gemäldegalerie der Staatlichen Museen), dove la Vergine ritorna quasi identica sia nella postura che nella definizione dei panneggi. Tutti elementi che portano a ritenere plausibile l’esecuzione dell’affresco da parte dello stesso Zanetto (forse in quest’ultima figura coadiuvato, come suggerisce De Marchi dal Ponzoni), che sembra logico pensare sia stato allora coinvolto anche nella realizzazione dei vari ritratti ducali che come è noto completavano la scena della Adorazione del Bambino posta in corrispondenza dell’altare maggiore. Malgrado le sollecitazioni che il giovanissimo artista dove
va avere ricevuto durante la sua permanenza nelle Fiandre, si può ugualmente immaginare che per le raffigurazioni dei committenti egli si fosse attenuto al modello allora in voga per la ritrattistica di corte, ponendo cioè i ritrattati di profilo.
A questo tipo di consuetudine Zanetto doveva del resto essersi abituato anche per via della sua documentata attività per la zecca di Milano, per la quale sappiamo fornì in più occasioni cartoni per medaglie e monete. Correggendo una precedente ipotesi di Syson, Marco Albertario, ha infatti consentito di collegare al suo nome la realizzazione del primo ducato d’oro che presenta in un verso il ritratto del duca Galeazzo Maria Sforza allora poco più che ventenne, essendo stata la moneta coniata nel 1467, quando cioè il giovane pittore che aveva fornito il disegno, era rientrato dalle Fiandre da appena tre anni. A mio parere più che con il gracile ritratto di Galeazzo Maria miniato nel frontespizio del Liber iudiciorum di Raffaele da Vimercate del 1461, richiamato da Albertario (Milano Biblioteca Trivulziana, cod. 1329, c. 2r) 28, il profilo della moneta trova precisi riscontri con quello che appare in una frammentaria pergamena (Milano, collezione Trotti Bentivoglio) tardivamente riadattata, insieme ad un’altra raffigurante for
se la madre Bianca Maria, a mo’ di quadretto, entrambi resi noti da Malaguzzi Valeri, quando si
trovavano ancora nella collezione di Guido Cagnola 29. Analoga è la precisione nella definizione del profilo, che si staglia quasi come fosse una vera e propria medaglia, grazie anche all’ombreggiatura del fondo, nonchè la resa accurata della maglia di ferro e dell’armatura, di fattura pressochè identica a quella indossata dal giovane duca nella moneta.
Appare indubbio che questo bel ritratto miniato, fino ad oggi stranamente ignorato dagli studi, possa costituire un utile indizio per meglio valutare le caratteristiche della ritrattistica della corte sforzesca durante il settimo decennio del secolo, quando cioè l’attività di Zanetto in questo particolare ambito risulta essere ampiamente documentata. Del resto sono proprio le particolari connotazioni stilistiche di questo ritratto a suggerire il possibile intervento più che di un minatore di un vero e proprio pittore. È quanto è stato osservato anche a proposito di un altro ritratto miniato raffigurante il duca Francesco Sforza, allegato al codice 786 della Biblioteca Trivulziana di Milano, che presenta forti analogie sia tecniche che esecutive con il nostro ritaglio. Per quanto sia difficile valutare la qualità della tessitura cromatica del foglio Trotti Bentivoglio attraverso la sola foto in bianco e nero, si può ugualmente immaginare che questo possa rispecchiare nella resa dell’incarnato, i toni perlacei e tenerissimi che caratterizzano il ritratto del codice Trivulzio, con cui condivide la ricchezza degli effetti chiaroscurali, che contribuiscono anche qui a dare all’immagine un senso di maggiore volume. Né molto distante appare la tecnica minuziosa con cui viene resa nel foglio Trivulzio, attraverso l’uso di sottili tocchi di luce, di gusto tutto fiammingo, la lucentezza del sontuoso broccato lavorato della veste del duca Francesco.
Le stringenti affinità che si riscontrano tra i due diversi ritratti, oltre a suggerire una possibile esecuzione da parte dello stesso artista, potrebbero indurre a pensare che in origine avessero fatto parte, insieme a quello citato con Bianca Maria, di un medesimo codice illustrato in apertura da alcuni ritratti a piena pagina dei più noti personaggi della famiglia ducale, come appare in altri importanti manoscritti lombardi del Rinascimento. Certo con ciò non si vuole naturalmente dimostrare che ad eseguire questi ritratti possa essere stato lo stesso Zanetto, per quanto tale ipotesi potrebbe apparire, sulla base di quanto osservato, quanto mai suggestiva. Ovviamente in questo caso si dovrebbe pensare ad una attività svolta dell’artista anche nel campo della miniatura, cosa che non risulta dai numerosi documenti pervenutici 32. In attesa di altri indizi, converrà pertanto limitarsi, alla luce delle osservazioni fatte, a considerare tali miniature semplicemente come possibili riflessi della ritrattistica messa in campo in questi stessi anni da Zanetto, la cui personalità artistica del resto immaginiamo di ben altra portata.
Resta pertanto come ipotesi più verosimile quella a suo tempo ventilata, sulla base delle osservazioni di Longhi, da Ferdinando Bologna e in tempi più recenti accolta da Andrea De Marchi e da Federico Cavalieri, vale a dire di riconoscere nel Maestro della Madonna Cagnola, per via degli indiscutibili riflessi fiamminghi e lombardi, lo stesso Zanetto. Un’ipotesi che trova ora nella tavola qui presentata ulteriori elementi di conferma, dal momento che, come si è detto, essa serba il probabile ricordo di un prototipo perduto di Rogier van der Weyden, che l’autore, come è stato dimostrato per altri casi, poté forse conoscere direttamente nelle Fiandre recandosi magari proprio a Bruxelles, come in effetti accadde a Zanetto. Del resto, com’è stato notato, anche il lacunoso affresco di Santa Maria degli Angeli, unica testimonianza in qualche modo certa dell’attività del Bugatto, presenta nelle parti meglio conservate, analogie con la produzione nota del Maestro della Madonna Cagnola 34. È quanto dimostra ad esempio la ben studiata testa del San Giuseppe, degna di figurare, per la sua “patetica intensità”, nonché per l’accuratezza di certi suoi particolari, accanto a quella del Sant’Ambrogio di collezione privata di New York, o a quella del San Gerolamo anch’esso reso noto per la prima volta da Roberto Longhi. Analoghe considerazioni possono essere fatte, sia pure in maniera meno diretta, anche per quanto riguarda il volto del Cristo morto qui presentato, accostabile anche per via di certi precisi dettagli morelliani a quello del San Giuseppe di Vigevano che, insieme alla frammentaria Maddalena dell’abbazia di Chiaravalle e forse alla Crocifissione di Buccinasco (sempre che sia opera del medesimo artista), sono quanto ci resta della sua attività di frescante, che sovente venne da lui condotta a fianco di altri noti pittori lombardi.
Del resto proprio partendo dalla frammentaria Adorazione del Bambino di Vigevano Stefania Buganza è giunta a identificare come possibile autore dei cartoni preparatori per due vetrate della Certosa di Pavia, quelle con la Natività e con San Bernardo, lo stesso Zanetto Bugatto, che ebbe probabilmente modo di eseguirli nell’ultima fase della sua attività. Ormai, come nota la studiosa, i ricordi dell’esperienza nelle Fiandre sembrano essere lontani nel tempo, sostituiti dalle più moderne sollecitazioni padovano-ferraresi o da quelle che gli giungevano da Vincenzo Foppa, con cui ebbe occasione di collaborare 37. Eppure anche in questi possibili ultimi lavori l’artista dimostra ancora, soprattutto nella Natività, di non avere completamente dimenticato quel primo approccio con il mondo nordico, di cui reinterpreta ora i modelli secondo una nuova monumentalità che tradisce chiaramente il confronto con le più aggiornate esperienze foppesche a cui dovette guardare avendo comunque ancora presenti, mi pare, anche certi modelli franco-fouquettiani, che potè conoscere durante il soggiorno compiuto in Francia nel 1468. Sono le stesse osservazioni fatte a proposito della Madonna Cagnola e dei vari pannelli ad essa collegati, che rispondono perfettamente, nel sottile connubio tra suggestioni fiamminghe e lombarde, al percorso figurativo che immaginiamo per Zanetto Bugatto, all’interno del quale si inserisce perfettamente anche la tavola qui presentata, ulteriore testimonianza della sua attività prematuramente interrotta a causa dell’improvvisa morte che colse l’artista primi mesi del 1476.
April 15, 2024