Zurigo capitale dell’Art Weekend
Serve conoscere Zurigo per capire come mai il suo Art Weekend è molto di più che la più intelligente prefazione ad Art Basel
Quella dove si tiene l’Art Weekend più importante del calendario artistico, insieme a quello di Berlino, è una città grigia e ingessata (borghese per vocazione, dai modi castigati e dedita religiosamente al “vile denaro”) a cui fa da specchio con effetti curiosi una seconda nebulosa urbana: assai più vitale se non irrequieta, ricca di pulsioni creative, anticonformista e pure sregolata. La narrazione di Zurigo alla stregua di una creatura bifronte placidamente adagiata ai piedi delle Alpi ha assunto i tratti di un vero topos letterario: non c’è articolo, approfondimento o reportage che sia riuscito a sfuggire alla trappola retorica di farne l’innesco del proprio racconto. L’escamotage poteva andare bene dieci, vent’anni fa; ora siamo davvero fuori tempo massimo. L’altra Zurigo – chiamiamola così – non ha più bisogno di essere enfatizzata: pulsa per tradizione – assecondando il genius loci – e si manifesta per quello che è, talvolta anche istituzionalizzandosi e intrecciando proficue interlocuzioni con la controparte “ufficiale”, con evidente beneficio per la comunità locale tutta e per la capacità attrattiva esercitata sul palcoscenico internazionale. Che poi – sia buona regola sottolinearlo – nulla viene per caso, e basterebbe avere la voglia di voltare lo sguardo all’indietro per ricordarsi che l’attualità affonda sempre le radici nel passato e per comprendere come, in questa fattispecie zurighese, il diffuso “effetto sorpresa” di cui sopra sia solo il cascame di una certa scarsa consapevolezza. Presi dalla smania di approfondire, toccherebbe fare un balzo di cinque secoli e tornare all’epoca di Ulrico Zwingli (1484-1531), teologo e militare, fondatore della Chiesa riformata svizzera: sulle sponde del Zurichsee, Zwingli fece rimuovere le immagini ritraenti la Madonna e i santi, ne proibì il culto, ordinò di pronunciare le prediche in lingua volgare, chiuse i monasteri e abolì il celibato ecclesiastico; e in mezzo a tutti questi scombussolamenti, aprì le braccia ai protestanti perseguitati dal cattolicesimo dando così il via a quella tradizione di tollerante ospitalità che è un po’ la specialità imperitura della casa, “casa” in cui, nella prima metà del Novecento, si accomodarono intellettuali, pacifisti e rivoluzionari provenienti da tutta Europa. Compreso – com’è noto – il bolscevico Lenin, che dal 1916 al 1917 visse nella tranquilla Spiegelgasse, al civico 14. Prima di prendere il treno piombato che lo riportò in patria, il fondatore dell’Urss sedeva nella Zentralbibliothek per leggere i giornali gratis, mangiava tortellini alla mensa della Società Cooperativa Italiana di Strassburgerstrasse e frequentava l’Odeon, inaugurato nel 1911 in Bellevue Platz, celebre caffè d’ispirazione viennese in stile liberty bazzicato da James Joyce, Albert Einstein, Stefan Zweig, Hans Arp, Thomas Mann e tanti altri. Perché nel resto del continente imperversava il primo conflitto mondiale, e furono in molti – tra artisti, pensatori ed esponenti della galassia culturale – a rifugiarsi qui, nella neutrale Svizzera.
Zurigo era l’epicentro dell’avanguardia europea, di cui massima e anarcoide vetrina fu il luogo di ritrovo fondato nel febbraio del ’16 da Hugo Ball e dalla futura moglie Emmy Hennings al numero 1 della già citata Spiegelgasse, proprio a pochi passi – ma tu guarda il caso – dall’abitazione di Lenin, che, disturbato da quel chiasso diventato abituale, pare non esitasse a chiamare la polizia. L’aura che avvolge il Cabaret Voltaire e il movimento Dada a cui fece da culla non smette di affascinare. Rimase aperto solo cinque mesi, ma tanto bastò. In seguito, il posto avrebbe cambiato intestazione più volte. Negli ultimi decenni era diventato il Castel Pub, poi il Nachtcafé, per finire vuoto e malridotto. Fino al febbraio 2022, quando un collettivo di artisti e agitatori costituitosi spontaneamente prese possesso dell’edificio, rianimandolo nel ricordo dei fermenti di un tempo: «Deploriamo che all’ultimo cambio di proprietà la città di Zurigo non abbia acquistato l’edificio per ristrutturarlo e ridare al Dadaismo lo spazio che merita», mettevano a verbale gli idealisti-squatter. La loro protesta ebbe successo. Oggi il Cabaret è un posto vivo. Degli ambienti originari è rimasta soltanto la colonna nella parte anteriore della sala, ma sul lato sinistro c’è ancora un piccolo palco di legno dove si continuano a inscenare azioni sperimentali. «Il Cabaret Voltaire era e rimane un luogo aperto alla critica onesta e allo scambio interdisciplinare, muovendo da istanze che hanno la stessa urgenza di quando venivano espresse per la prima volta nel 1916», dicono i suoi animatori. E il resto del panorama zurighese? Com’è cambiato nel volgere dei decenni?
Tra i momenti di svolta, Daniel Baumann, direttore dal 2014 della Kunsthalle Zürich, accende i riflettori sulla fine degli Anni 70, con il suo carico di agitazioni contro-culturali. Ci spiega: «A quel tempo emerse una nuova generazione di artisti, attivisti, curatori ed editori che reclamava (e talvolta occupava) spazi espositivi e luoghi per la musica, il teatro, le performance. Era un’epoca di impegno culturale, attivismo politico e azioni dimostrative di “guerriglia”. Tra questi c’erano Bice Curiger (tra l’altro cofondatrice della rivista Parkett, dal 2013 direttrice artistica della Fondation Van Gogh di Arles e autrice della cronologia del movimento punk a Zurigo che abbiamo pubblicato qualche tempo fa – link, ndr), gli artisti Peter Fischli, Klaudia Schifferle e David Weiss, i futuri editori Patrick Frey e Walter Keller – e molti, molti altri. Ricordiamo anche Harald Szeemann, che sorprese il pubblico con le sue mostre al Kunsthaus Zürich negli Anni 80 e 90». È un contesto a cui si sovrappone l’operato di una rete di gallerie molto dinamiche: «Già negli Anni 70 esisteva una scena internazionale con Gimpel & Hanover Galerie, Galerie Maeght e Marlborough Galerie; a queste vanno aggiunte le iniziative di Annemaire Verna, Renée e Maurice Ziegler, Bruno Bischofberger e Pablo Stähli, con programmi d’avanguardia di alto profilo. Ne nacque una comunità di collezionisti aperta alle novità, attiva ancora oggi». La scena ha continuato a evolversi: «A metà degli Anni 80 venne fondata la Kunsthalle Zürich, c’erano due scuole d’arte molto attive e buoni giornali con critici ambiziosi – e c’era il segreto bancario svizzero, che attirava e permetteva di nascondere molti soldi». Il boom delle gallerie e del collezionismo colto (come quello dell’editore Michael Ringier) si registra intorno alla metà degli Anni Novanta, «con Eva Presenhuber, Hauser & Wirth, Peter Kilchmann e Mai 36, solo per citarne alcune; e poi sono arrivati gli Anni Duemila, con i “Bonus Boys” e l’idea che l’arte contemporanea fosse “cool” e quindi andava acquistata». Conclude Baumann: «Qui, i politici, la popolazione, l’intera città ama e promuove la cultura contemporanea: l’arte, ma anche il teatro, la musica, la letteratura, il design… È parte di uno specifico lifestyle. Zurigo era ed è ancora relativamente piccola: le persone si conoscono, si incontrano, discutono, bevono qualcosa e visitano mostre ed eventi. È un panorama vivace fatto di brevi distanze, amicizie e network, ma non così grande da essere autosufficiente. Le persone vanno e vengono, riportano idee o le esportano, c’è molto scambio con altri luoghi. Ed è questo il motivo per cui continua a prosperare».
Quanto questa metropoli small sia “prospera” l’ha confermato da pochissimo la settima edizione – dal 9 all’11 giugno – di Zurich Art Weekend, rampa di lancio di uno degli snodi centrali dell’intero sistema dell’arte contemporanea: «Zurigo è l’aeroporto di Art Basel», raccontava in un’intervista Charlotte von Stotzingen, che della kermesse è Founding Director, «e abbiamo iniziato nel 2018 chiedendoci come trarne vantaggio. Basilea è una fiera che ha saputo sviluppare al meglio il suo focus commerciale, in parte sacrificando gli spazi di incontro e dialogo; il nostro fine settimana dell’arte, invece, fonda la sua esistenza sulle opportunità di incontro. Siamo un’organizzazione non profit, l’evoluzione della rassegna passa dalla capacità di fare rete con tanti soggetti diversi, e ci rivolgiamo anche a pubblici differenti. Ai nostri eventi si ritrova un patchwork di persone, tra artisti affermati ed emergenti, creativi, ricercatori, scienziati, collezionisti, giornalisti e critici. Funzioniamo da “preview” di Art Basel e riflettiamo la vivacità dell’ecosistema zurighese». Continuava poi von Stotzingen: «Il nostro obiettivo è quello di rendere accessibile a tutti il meglio della produzione artistica, attraverso piccoli eventi a dimensione d’uomo che aiutano a godere a pieno dell’esperienza. Zurigo è una città concretamente internazionale e questo ci permette di coltivare molte relazioni con l’estero che vengono successivamente incanalate nell’Art Weekend. Ma la manifestazione in questi anni ha anche aiutato la scena locale a crescere, perché ha messo in comunicazione le diverse realtà – gallerie, fondazioni, musei, “off space”, università – alleandole tra loro». Insomma: un weekend molto internazionale, democratico e multidisciplinare. Niente male, come biglietto da visita del genius loci che abita da queste parti.
May 31, 2024