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Cecco Bravo e la bellezza del sottosuolo

Francesca Baldassarri

e pitture finali di Cecco sono drammatiche e misteriose, si nutrono di sogni e, nella loro eccentricità allucinata, attirano lo spettatore nella scena fino a coinvolgerlo al punto da farlo sentire parte di questa. 

I natali di Cecco, figlio di Antonio di Giovanni e di Polita di Domenico Baggiani, residenti nel popolo di Sant’Ambrogio, cadono il 15 novembre del 1601. Come rilevato da Anna Barsanti, la famiglia contava già una prima figlia, Maria, nata il 15 ottobre del 1598, alla quale seguirà Elisabetta, venuta alla luce il primo agosto del 1606. Quest’ultima si prese sempre cura del fratello e lasciò erede, alla sua morte, avvenuta nel 1683, la compagnia di San Giuseppe detta dei Legnaioli, tra le cui carte, conservate all’Archivio di Stato di Firenze, la stessa Barsanti ha scovato il prezioso archivio Montelatici.

Da questi documenti si apprende che la famiglia di Cecco si era stabilita fin dal Quattrocento nella contrada Montelatico, poco fuori Firenze, nella bassa pianura a oriente oltre Porta alla Croce, che dette il nome a molte famiglie della zona tra le quali quella del Nostro. I Montelatici erano una famiglia di contadini, dedita soprattutto alla coltivazione di orti e frutteti. Antonio di Giovanni lasciò presto il proprio nucleo familiare poiché, nel 1606, quando fu battezzata la figlia Elisabetta, risulta già residente nel popolo di Sant’Ambrogio dove praticava il mestiere di «battilano».

Né le carte di casa Montelatici, né altre fonti archivistiche ci svelano perché Cecco abbia deciso di diventare un artista. Un documento mediceo e i biografi rivelano, però, chi fu il suo primo maestro: Giovanni Bilivert, un pittore molto amato dalla corte medicea che gli aveva concesso come studio alcuni locali delle stanze degli Uffizi e una provvigione mensile di quindici scudi. 

Filippo Baldinucci, seguito da tutti gli altri biografi, è il primo a ricordare Cecco come allievo di Bilivert, la cui bottega era un ambiente privilegiato per ammirare le pitture e le statue antiche e incontrare artisti forestieri, come il lorenese Jacques Callot che, dal 1614, condivideva l’atelier bilivertiano. Questo ambiente artistico vivacissimo si disgregò quando, morto il granduca Cosimo II de’ Medici nel 1621, le granduchesse reggenti Cristina, mamma di Cosimo, e Maria Maddalena, sorella dell’imperatore Ferdinando e vedova di Cosimo, imposero un regime di stretta austerità. Bilivert, sdegnato per aver perso la provvigione, abbandonò i locali – anche se la corte non glieli revocò – seguito probabilmente da Cecco, che cercò protezione presso Matteo Rosselli, caposcuola al quale furono affidate, tra il 1621 e il 1623, le grandi decorazioni ad affresco del Casino Mediceo di San Marco, volute dal cardinal Carlo, e quelle della villa di Poggio Imperiale, richieste da Maria Maddalena d’Austria.

Se la presenza di Cecco nel cantiere del Casino Mediceo è ancora sub iudice, la sua mano nella villa di Poggio Imperiale è stata indipendentemente riconosciuta da tempo, dalla Barsanti e da Pagliarulo, nella lunetta con La profetessa Maria inneggia al Signore dopo il passaggio nel Mar Rosso nella Stanza delle Eroine Bibliche. Nelle ricche marezzature delle vesti e nei nobili profili alla greca dei protagonisti è evidente la lezione bilivertiana, mentre il tono narrativo pare piuttosto in linea con gli insegnamenti rosselliani.

L’esordio pubblico di Montelatici, la pala con San Nicola di Bari libera tre giovani ingiustamente condannati a morte, eseguita nel 1625 per l’arcidiacono Pietro Niccolini, destinata all’altare di famiglia della chiesa di San Simone a Firenze e oggi in collezione privata, ribadisce, nella sua sontuosità cromatica, l’importanza del discepolato bilivertiano. Il rosso aranciato della giubba del manigoldo, la veste rosa e l’azzurro del manto del condannato di fronte a san Nicola, l’oro caldo e la vinaccia serica del piviale del santo e il verde scuro del drappo in basso a destra sono le note più preziose della tela, che attesta già la tipica foga del Montelatici nel gesto dello sgherro dalla testa sconvolta e nella posa sghemba del giovane in primo piano, per il quale appare determinante la lezione di Rosso Fiorentino.

Fig. 1 San Nicola di Bari libera tre giovani ingiustamente condannati a morte. Firenze, collezione privata.
Cecco Bravo, Saint Nicholas of Bari frees three young men unjustly condemned to death. Florence, Private collection.

La carriera ufficiale di Cecco inizia il 29 giugno 1629, anno del pagamento della tassa di immatricolazione all’Accademia Fiorentina del Disegno.

Già agli inizi del gennaio del 1630 il Nostro risulta titolare di una bottega in Porta Rossa, frequentata da diversi allievi che eseguivano copie dei suoi dipinti. In questo anno si data la Semiramide oggi nelle collezioni comunali di Prato, oggetto di una controversia tra Cecco e il cavaliere Lorenzo dal Borgo che si risolverà a favore del pittore.

Se lo stile sfarzoso di Bilivert è presente in tutti i quadri riconducibili a questo periodo, la coeva pittura ad affresco è qualificata da altre e più significative esperienze per il proseguimento della sua attività.

L’affresco con la Vergine e San Giovanni, dipinto intorno al 1628-1629 nel chiostro di San Marco a Firenze, mostra un evidente recupero della pittura di Andrea del Sarto nell’impostazione sobria e monumentale delle due figure e nella gamma cromatica delicata. 

Degli stretti rapporti tra il pittore e l’ordine servita fanno fede le sei lunette con episodi della vita di Bonaventura Bonaccorsi, affrescate nel 1633 nel chiostro della Santissima Annunziata di Pistoia, città dove, con ogni probabilità, il Montelatici si trasferì per sfuggire alla terribile pestilenza abbattutasi su Firenze nel 1630. Seguendo il programma di padre Arcangelo Giani, cronista autorevole dell’ordine, Cecco narra la storia del beato pistoiese rievocando le discordie e i duelli tra le opposte fazioni cittadine, la predicazione di Filippo Benizzi, la conversione di Bonaventura, la sua rappacificazione con i nemici, la decisione di vestire l’abito dei servi di Maria e la penitenza per espiare le colpe commesse. Le sei lunette, finanziate dalle famiglie pistoiesi dei Bonaccorsi, dei Gatteschi e dei Panciatichi, hanno un ritmo incalzante, mostrano gestualità amplificate e il loro vestiario è pittoresco e stravagante. Cecco prosegue la linea narrativa di Bernardino Poccetti, che aveva iniziato il ciclo nel 1601, rileggendolo con uno spirito più agile e scattante in linea con quello di Giovanni da San Giovanni, collega che il Nostro aveva senz’altro visto all’opera nel chiostro fiorentino di Ognissanti (1619 ca.) e che era attivo a Pistoia, nello stesso momento, nella cappellina di Palazzo Rospigliosi per affrescare le deliziose Storie di santa Caterina d’Alessandria

Una forte vena caricaturale caratterizza anche la decorazione ad affresco dello studio di Casa Buonarroti compiuta nel 1636 per Michelangelo Buonarroti il Giovane (Firenze, 1568-1647), poeta e apprezzato autore teatrale alla corte medicea che aveva dedicato molte energie alla realizzazione del programma, come attestano i lunghi elenchi di nomi e i rapidi schizzi dei personaggi indicati nelle sue carte. Questi dimostrò attenzione per i pittori fiorentini di almeno due generazioni, che impiegò a partire dalla prima metà del secondo decennio per la decorazione della dimora di via Ghibellina, e ricorse quindi anche al Nostro. La saletta dipinta da Cecco, l’ultima delle quattro stanze di rappresentanza della dimora, ha come tema l’esaltazione del primato culturale di Firenze attraverso gli uomini che l’hanno resa famosa nel campo delle lettere, delle scienze e della legge. Gli affreschi del Nostro sono quelli del soffitto con la Sapienza circondata da putti alati, quelli della parete settentrionale dove, sullo sfondo del Parnaso, sono raffigurati i Poeti e gli Scrittori, e quelli della parete ovest dove compaiono gli Astronomi, i Matematici e i Navigatori. I putti scherzosi e stravaganti che circondano la Sapienza, colti in pose audaci, e le grisailles briose e scattanti dipinte su fondo giallo e rosso pompeiano confermano, se ce ne fosse ancora bisogno, il carattere estroso e bizzarro degli esordi cecchiani. Nella galleria dei Poeti e degli Scrittori sono presentate le figure più celebri: nel vestibolo monsignor Della Casa in abiti ecclesiastici, dietro di lui Guido Cavalcanti cinto d’alloro e, poco più in là, Francesco Petrarca con il lauro che indica la testa scolpita di Platone.

Fu probabilmente il tono troppo beffardo degli uomini illustri, che si accalcano confusamente dal parapetto, dell’altra parete a infastidire Michelangelo Buonarroti il Giovane, che licenziò Cecco per sostituirlo con Domenico Pugliani e con Matteo Rosselli. Galileo, rappresentato senza alcun segno di riverenza con un ghigno beffardo, il vicino Amerigo Vespucci, ridicolmente caratterizzato dall’enorme naso, e Guido Bonatti, con lo sguardo perduto verso il cielo, sono prove evidenti dell’interpretazione arguta dei celebri personaggi e dell’interesse accentuato di Cecco, in questo momento, per il grottesco, l’enorme e il caricaturale. Neppure l’intervento di Bindaccio Ricasoli, fratello del canonico Pandolfo sopra ricordato, riuscì a ricucire il rapporto tra il mecenate e il pittore.

Fig. 2 Matematici, astronomi e navigatori. Firenze, Casa Buonarroti, biblioteca.
Cecco Bravo, Mathematicians, astronomers and navigators. Florence, Casa Buonarroti, library.

Cade nell’anno 1636 l’affresco con San Vitale e i figli, della nuova sagrestia della Madonna alla Santissima Annunziata di Firenze, da poco realizzata per volere di Alessandro e Antonio Medici in memoria del padre Vitale, ebreo colto e facoltoso convertitosi al cristianesimo al cospetto di papa Gregorio XIII e alla presenza del cardinale Ferdinando de’ Medici. I volti dei committenti sono celati da Cecco nei santi Gervasio (Alessandro, raffigurato come un neofita che attende il battesimo) e Protasio (Antonio, in preda all’estasi mentre assiste alla visione miracolosa del padre che ascende al cielo). Qui il tono grottesco dei personaggi è accentuato dall’uso miracolistico della luce abbagliante, che non risparmia né il coro degli angeli in alto, né i santi della fascia media, né tantomeno lo spiritato angioletto che rimanda a quello affrescato da Cecco sopra il San Giovanni nel chiostro di Sant’Antonino a San Marco.

Fig. 3 San Vitale e i figli Gervasio e Protasio in adorazione del santissimo Sacramento Firenze, basilica della Santissima Annunziata, cappella della Madonna.
Cecco Bravo, San Vitale and his sons Gervasius and Protasius in adoration of the Blessed Sacrament, Florence, basilica of the Santissima Annunziata, chapel of the Madonna.

Parallelamente, il Montelatici dovette svolgere anche un’attività di destinazione pubblica per privati, di difficile identificazione. È incontrovertibile, tuttavia, che spetti a quest’altezza cronologica, appena varcata la metà del quarto decennio, la bellissima pala con San Michele arcangelo e gli angeli adoranti oggi nella pieve di Santa Maria dell’Antella, dove subentra un linguaggio meno espressivo e più introverso, in consentaneità con quello di Jacopo Vignali.

Sono gli anni in cui Cecco esegue verosimilmente i suoi dipinti di paesaggio, un genere raro nella pittura fiorentina del Seicento prima dell’arrivo in città del napoletano Salvator Rosa, avvenuto nel 1640 per volere di Giovan Carlo de’ Medici. Molti dei paesaggi noti di Cecco sono realizzati su rame o tavoletta. La scelta del supporto non può essere stata casuale: credo che, da buon intenditore quale fu, Cecco scegliesse con cura le superfici sulle quali tracciare i suoi paesaggini. Un genere certamente meno ufficiale e quasi condotto nell’intimità del proprio atelier per soddisfare un piacere personale, che richiedeva, tuttavia, grande agilità di mano e magistrali accostamenti tonali. 

I documenti d’archivio ricordano molti paesaggi di Montelatici e gli esemplari oggi noti, una decina e tutti di alta qualità, confermano la sua applicazione al genere già a partire dagli anni Venti, poiché un documento reso noto da Silvia Botticelli svela che nel gennaio del 1631 furono pagate le cornici per «alcuni paesi» di Cecco Bravo. Il documento è importante, perché attesta i rapporti di Montelatici con il facoltoso banchiere Agnolo Galli (Firenze, 1604-1657), il membro più importante di una famiglia di umili origini pratesi che, giunto a Firenze nell’ultimo quarto del Cinquecento, raggiunse presto una posizione economica di tutto rispetto.

Tra l’autunno del 1638 e l’estate dell’anno seguente Cecco fu attivo nel Salone degli Argenti a Palazzo Pitti, dove dipinse per Ferdinando II de’ Medici i due lunettoni allegorici ad affresco con Lorenzo il Magnifico accoglie le muse e Lorenzo il Magnifico portatore di pace. Dopo la morte di Giovanni da San Giovanni nel 1636, Ferdinando, unitosi da poco in matrimonio con Vittoria della Rovere, volle a palazzo, per ultimare i lavori, i più importanti pittori della Firenze del tempo. Insieme a Cecco, già impiegato all’epoca presso la Sala delle Porcellane, risposero all’appello Ottavio Vannini e Francesco Furini. Stravolgendo il programma iconografico del Mannozzi, la triade, portavoce di un nuovo corso pittorico squisitamente fiorentino, in antagonismo con quanto produceva negli stessi anni Pietro da Cortona presso la Sala della Stufa, diede vita a un ciclo allegorico esemplato sugli episodi della vita di Lorenzo riletti in chiave moderna, adempimento dell’operato del granduca Ferdinando, degno successore del Magnifico e nuovo ago della bilancia politica italiana. Nei lunettoni del Nostro, la giovanile vena grottesca appare superata, il colore si fa più fluido e trasparente e i personaggi acquistano in eleganza senza dubbio anche grazie alla vicinanza di Francesco Furini, attivo nelle pareti opposte.

L’adesione al furinismo scema presto nel Nostro, come attesta l’affresco nel soffitto con San Zanobi, sant’Antonino e san Carlo Borromeo nell’oratorio di San Francesco dei Vanchetoni, concluso il 17 marzo del 1640, un cantiere polifonico cui parteciparono il padovano Pietro Liberi e i toscani Domenico Pugliani, Giovanni Martinelli e Lorenzo Lippi. Gli elementi che lo contraddistinguono sono l’accentuato effetto scenografico e l’impianto prospettico delle figure. I santi sono ripresi in un’animata disputa e i due angioletti spettinati che reggono i pastorali, la mitra di san Zanobi e il galero di san Carlo Borromeo si librano in un volo concitato. La morbidezza materica, i colori evanescenti che vanno dal grigio all’azzurro chiaro fino ai toni abbassati del rosso e del giallo e l’accentuato scorcio di sotto in su sono elementi prima d’ora inediti nella produzione pittorica di Cecco, che presuppongono un suo viaggio in Italia settentrionale: a Parma per ammirare Correggio e a Venezia per scoprire il colorismo di Tiziano. Secondo la testimonianza del Lanzi, il Passignano era solito dire: «Chi Venezia non vide non si può lusingare di essere pittore» e Cecco, che aveva osservato bene il maestro in gioventù, lo tenne senz’altro a mente. Consapevole di mancare ancora di quell’esperienza fondamentale di studi, prese i propri bagagli e si avventurò nel nord Italia. 

I risultati di questo viaggio sono evidenti anche nella coeva produzione da cavalletto. Penso in particolare al meraviglioso Angelica e Ruggiero già nella collezione Kress e oggi all’Art Institute di Chicago (fig. 9). Nell’atmosfera incantata della rievocazione ariostesca, nell’eleganza delle figure e nel gioco raffinatissimo delle ombre e delle luci, la lezione furiniana è riletta in modo personale e originale attraverso il cromatismo veneziano.

Cecco Bravo
Cecco Bravo, Angelica e Ruggiero, The David and Alfred Smart Museum of Art, University of Chicago

Per trovare un punto fermo cronologico nel percorso si deve attendere le Nozze di Sara e Tobia di collezione privata fiorentina (fig. 10), un dipinto che oggi sappiamo eseguito tra il 1647 e il 1648 per Lorenzo di Lorenzo Strozzi, verosimilmente lo stesso che Marco Lastri vide alla fine del Settecento in casa Pitti e che scelse e presentò nella sua Etruria pittrice per parlare dello stile di Cecco. Preceduta da un bozzetto preparatorio, la tela è qualificata da un’atmosfera drammatica, da pennellate sfrangiate e da un luminismo contrastato, da porre in relazione con la coeva produzione di Felice Ficherelli, pittore d’indole opposta a quella del Nostro, ma straordinariamente affine a lui a partire da quest’altezza cronologica fino al termine della sua carriera.

Un posto di tutto rispetto nella pittura del sesto decennio conviene alla coppia con Erminia tra i pastori e Apollo e Marsia del Museo Civico di Pistoia, accompagnata da un folto gruppo di disegni preparatori, caso più unico che raro per Cecco, a testimonianza dell’importanza della commissione. Le tele, ricche di brani di puro cromatismo come il cimiero di Erminia, il vello della pecora e le zampe caprine del satiro, mostrano rapporti tali con la pittura dello Strozzi, nome con il quale comparvero alla mostra veneziana del Seicento tenuta a Ca’ Pesaro nel 1959, da rivelare quanto Cecco fosse rimasto stregato dal cappuccino genovese.

Cecco Bravo
Cecco Bravo, Erminia among the Shepherds and Apollo and Marsyas, Pistoia, Civic Museum.

Con la raffigurazione dell’Erminia nella tela oggi pistoiese, e poi, come vedremo più avanti, con il dipinto dedicato ad Armida ora agli Uffizi, anche Cecco, al pari di tanti suoi colleghi fiorentini, non mancò di visualizzare episodi celebri della Gerusalemme Liberata del Tasso, un poema molto amato nell’ambiente mediceo dal momento che assunse un valore particolare in conseguenza delle nozze, avvenute nel 1589, tra Ferdinando I e Cristina di Lorena, quest’ultima presunta discendente di Goffredo di Buglione, eroe dell’opera del Tasso e modello di condottiero cristiano, prontamente assimilato dalla mitologia granducale.

Cecco Bravo, Armida, Florence, Uffizi Galleries.

Purtroppo perduto è il grande affresco con la Caduta degli angeli ribelli dipinto nel 1653 per la controfacciata della chiesa dei Santi Michele e Gaetano a Firenze, forse l’opera di Cecco più celebrata dalle fonti. Non ci sono pervenute neppure le due lunette con la Presentazione di Maria al Tempio sul portale della chiesa di Santa Maria Novella verso la Porta Vecchia, alla quale faceva riscontro, all’interno, quella con lo Stemma gentilizio della famiglia Manadori sorretto da putti, di cui sopravvive un frammento, molto rovinato, oggi nei depositi della villa di Castello. A supplire alla perdita dell’affresco dei santi Michele e Gaetano rimane lo straordinario e ricco gruppo di disegni propedeutici. Dallo stile grafico di Bilivert, Cecco derivò la maniera frenetica nell’abbozzare le immagini sul foglio, tramite un linearismo franto e convulso, capace di cogliere sia le inquiete vibrazioni luministiche di lontana derivazione leonardesca, sia la cristallizzazione astratta di forme scheggiate nei piani di superficie, desunte dal repertorio di Rosso Fiorentino e di Giovanni Battista Naldini. Il pittore partecipa al dramma umano delle creature angeliche che precipitano, si contorcono, i loro volti sconvolti dal terrore, mentre la matita scorre velocissima a definirne i lineamenti, i corpi asciutti.

Cecco Bravo
Cecco Bravo, Manadori family coat of arms supported by putti, Florence, Museo dell’Opera di Santa Croce.

Intorno alla metà degli anni Cinquanta, sembrerebbe databile anche l’Apollo e Dafne della Pinacoteca Comunale di Ravenna, analogo all’Armida nella verve fantastica e nella pennellata avvolgente e franta. Nel groviglio delle membra impastate del colore compenetrato dalla luce si coglie, ancora una volta, la lezione dell’ultimo Tiziano. Anche qui ciò che interessa a Cecco, come in tutti gli altri suoi dipinti, è la resa emotiva dei personaggi in azione: Apollo è mostrato accecato dal desiderio, fomentato da Cupido che si libra in cielo con la faretra sguainata, mentre Dafne appare tremante con il volto deformato dall’orrore.

Cecco Bravo
Cecco Bravo, Apollo and Daphne, Ravenna, Municipal Art Gallery..

Siamo a un passo dalla trasferta del pittore a Innsbruck, avvenuta il primo giugno del 1660 in compagnia del fedele allievo e amico Jacopo Benvenuti. 

Il 26 novembre del 1656 Cecco ricevette il titolo di «Maestro del Naturale» all’Accademia del Disegno fiorentina, in seguito alla rinuncia da parte del collega Simone Pignoni. All’epoca il Nostro non era più considerato tra i pittori più importanti della città, come risulta da un processo intentato l’anno precedente dallo scultore Domenico Pieratti ad Agnolo Galli. Nella rosa di nomi, indicati da almeno tre testimoni qualificati, tra gli artisti più significativi di Firenze, quello di Cecco infatti non compare. Fu senza dubbio la perdita di popolarità e la mancanza di commissioni importanti a spingere Montelatici ad accettare, su pressione del suo fedele protettore, il cardinale Leopoldo de’ Medici, l’invito della sorella di questi, Anna de’ Medici, a trasferirsi a Innsbruck.

Cecco bravo, Aurora, Rome, Palace of Montecitorio.

Di questo soggiorno alla corte tirolese rimangono con certezza solo due dipinti: l’Aurora, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, un soggetto caro a Cecco, trattato in precedenza nella tela di proprietà delle Gallerie Fiorentine e oggi in deposito alla Camera in Palazzo Montecitorio a Roma, e il ritratto dell’Arciduca Ferdinando Carlo del Tirolo a cavallo del castello di Ambras a Innsbruck. Quest’ultimo, iniziato da Giusto Suttermans nel 1656 e lasciato incompiuto, fu terminato dal Nostro, responsabile di tutte le zone della grande tela a eccezione del volto del protagonista. Il dipinto offre la visione personalissima di Cecco nella trattazione del ritratto equestre, un genere che vanta una tradizione illustre risalente al Rinascimento. L’inserto aggrovigliato dei soldati e dei cavalli della battaglia sullo sfondo, resa con pennellate rapide e guizzanti di luce, la dice lunga sulla foga pittorica dell’estremo Montelatici. Il Nostro ha indubbiamente tenuto presente, oltre ai dipinti di Salvator Rosa, anche quelli del francese Jacques Courtois detto il Borgognone, a lungo attivo a Firenze dove fu protetto dal principe Mattias de’ Medici. Mentre, però, nel Borgognone la luce non dissolve gli aggrovigliati e intricati gruppi di figure, di armi e di cavalli, in Cecco ogni elemento è come disfatto, reso quasi fosforescente dalla luce che l’avvolge.

Cecco Bravo, Archduke Ferdinand Charles of Tyrol on horseback Innsbruck, Ambras Castle.

Le pitture finali di Cecco sono drammatiche e misteriose, si nutrono di sogni e, nella loro eccentricità allucinata, attirano lo spettatore nella scena fino a coinvolgerlo al punto da farlo sentire parte di questa.  La morte colse Cecco a Innsbruck nei primi mesi del 1661 a soli sessant’anni, quando era nel pieno delle sue energie, aperto a registrare sempre nuove esperienze e a rielaborarle in un linguaggio personale e sempre originale.


Francesca Baldassarri è la massima esperta di pittura fiorentina del Seicento e del Settecento, un campo che ha iniziato a indagare sotto la guida di Mina Gregori e del poeta e collezionista Piero Bigongiari. Ha curato in tutto il mondo mostre e volumi su artisti e temi oggetto dei suoi studi, in particolare il catalogo completo dei dipinti di Carlo Dolci e l’indice degli artisti e delle opere della pittura fiorentina del Seicento. Nel 2024 ha pubblicato la prima monografia su Cecco Bravo (link).

September 25, 2024