Suzanne Santoro: femminilità
Per Suzanne Santoro l’arte deve entrare nei sistemi complessi, per occupare quei luoghi che sfruttano il corpo femminile e sovvertirli.
Suzanne Santoro, 1946, Brooklyn New York, vive e lavora a Roma: “Dipingo perché la pittura è un’esperienza unica. Non è come nessun’altra forma d’arte: dipingere ti permette di esplorare lo spazio, come se fosse sganciato dal tempo. Questo me lo ha insegnato Rothko.” Per Suzanne Santoro, la pittura non è mai stata una reliquia da appendere e dimenticare. È uno spazio vivo, che respira, muta e sfida. È un atto di presenza, una forma di resistenza. Santoro non si lascia distrarre dai fantasmi del passato, ma li prende per mano. La sua arte è esplorazione continua, un linguaggio che evolve senza mai spegnersi.
Negli anni ’60, Suzanne Santoro vive a Roma per qualche tempo insieme a Mark Rothko e famiglia, in un palazzo nel cuore del Ghetto. È lui, l’artista delle grandi “porte di colore”, a farle capire che il colore può creare spazi emotivi capaci di sfidare la logica del tempo. Lascia così New York e da quel momento Roma, con le sue stratificazioni di storia e caos, diventa per lei un centro creativo.
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Ma è negli anni ’70 che, con la serie di fotografie intitolate gli Specchi Neri, la sua arte si radicalizza grazie all’incontro con Carla Lonzi, femminista e critica d’arte rivoluzionaria, con il gruppo di Rivolta Femminile. Non solo affinità tra le due. Lonzi sosteneva che la vagina fosse un simbolo da proteggere, non da esibire. “Per Carla, la vagina era un tabù, un simbolo intoccabile. Era come se avesse già capito tutto del futuro neoliberista: prima o poi qualcuno avrebbe messo l’organo sessuale femminile sulle magliette o nelle pubblicità di lingerie,” riflette Suzanne Santoro con ironia.
Da questo dialogo nasce un’arte che si muove tra intimità e resistenza politica. Gli Specchi Neri, con il loro strato di resina poliestere delicatamente stesa sulla superficie di immagini in bianco e nero, sono i mezzi perfetti per questi processi, come il disegno, l’acquerello e la tempera: imprevedibili, come una pelle viva che si espande e si ritrae. Il corpo femminile si riappropria di sé, sfuggendo ai codici di idealizzazione e voyeurismo.
Le donne che abitano le sue opere non sono Veneri botticelliane né Veneri di Willendorf. Non sono statiche, insomma. Sono figure complesse, forti e vulnerabili. Non chiedono ammirazione, ma riconoscimento. Suzanne Santoro sembra dirci: “Non cerco la perfezione. Cerco l’autenticità, anche se significa contraddizione e incompletezza.”
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Il lavoro di Suzanne Santoro trova radici nelle teorie della percezione. Maurice Merleau-Ponty scriveva che la pittura rivelasse “la carne del mondo” attraverso il senso. Santoro porta questa riflessione nell’era digitale, dove il corpo è ridotto a simulacro. I suoi acquarelli ci chiedono di “vedere davvero” ciò che la saturazione di immagini ci nasconde.
La sua arte non si ferma al perimetro delle gallerie. Recentemente ha collaborato con Dior per la sfilata Autunno 2024 al Brooklyn Museum di New York. Un suo disegno è stato rielaborato dal collettivo Claire Fontaine, che ha prodotto un’opera al neon raffigurante mani femminili unite a formare il simbolo della vagina; un gesto simbolico delle proteste femministe degli anni ’70, e che ha dominato la scenografia dello show. Quando le chiedo se non trova contraddittorio che un’artista femminista collabori con la moda, un’industria spesso criticata per la sua rappresentazione stereotipata della donna, lei risponde con un sorriso che già contiene la risposta.
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Non è una resa, ma una strategia. Per Suzanne Santoro, l’arte deve entrare nei sistemi complessi, occupare quei luoghi che sfruttano il corpo femminile per sovvertirli dall’interno. “Bisogna creare varchi nei sistemi,” afferma, suggerendo che la trasformazione passa anche attraverso il dialogo con mondi contraddittori.
In tempi segnati dal movimento #MeToo, che ha rivelato il legame tra industria culturale e abuso di potere, la moda può diventare una piattaforma per risemantizzare simboli. Essere artiste femministe, per Santoro, significa rinegoziare continuamente il significato delle immagini, utilizzando il linguaggio visivo per sottrarre il corpo alle logiche di sfruttamento.Suzanne Santoro costruisce, decostruendo. La sua pittura è infatti una riflessione metalinguistica sullo spettacolo dell’arte stessa. Guy Debord ci ha insegnato che viviamo in una “società dello spettacolo”, dove tutto diventa immagine da consumare. Santoro sfugge a questa logica: non crea feticci o icone, non è interessata a stupire. La sua arte invita a qualcosa di più sottile e rivoluzionario: un corpo che esiste per sé, che non ha bisogno di essere osservato, ma ha semplicemente la necessità di essere. Dipingere la vagina non con fini divulgativi, ma epifanici. In primis, per lei stessa.
February 10, 2025